venerdì 29 luglio 2016

Letteratura Veneta-Tanti autori da leggere


Da la Tribuna di Treviso articolo di Giorgio Pullini Qui



COSÌ SI RACCONTA LA DOLCE FOLLIA DEL NOSTRO VENETO

«Saggezza e follia, rabbia e rassegnazione, orgoglio e malinconia sono i tratti del nostro carattere che gli scrittori hanno rivestito di colorite metafore»-e ancora-
Un fondo di saggezza e di misura, con strappi di stravagante trasgressione.



Già molti studiosi (da Piovene a Frasson, dalla Chemotti a Cesare de Michelis) hanno osservato come «La letteratura veneta (...) ha qualcosa di periferico rispetto alla letteratura italiana e alle sue centrali ideologiche»; ma che, nello stesso tempo, sarebbe improprio volerne fissare dei caratteri generali, al di fuori dei tratti specifici di ogni singolo scrittore o, tutt'al più, di singole città, soprattutto nel contrasto, spesso marcato, tra capoluogo regionale (Venezia) e città della terraferma.

Qualche caratteristica generale potrebbe, al massimo, consistere nel rifiuto di una ripresa diretta, fortemente realistica, del vero, per una interpretazione ammorbidita nei riferimenti allusivi, fino all'estremistica affermazione di Piovene che, nel Veneto «ogni scrittore è un cacciatore solitario delle proprie ombre» e che «Nell'insieme (...) questa letteratura potrebbe intitolarsi: quello che il Veneto ha taciuto».

Ad uno sguardo panoramico dell'ultimo cinquantennio, e procedendo per temi e tendenze espressive più che per luoghi di origine, si può constatare come nessuno scrittore riesce a stare dentro un'etichetta; e come ciascuno offra un volto poliedrico, pur presentando certi caratteri più marcati di altri. Guerra, paesaggio, sensualità, ambiguità di coscienza, mondo contadino, autobiografismo, romanzo storico, romanzo di costume, surrealtà, ironia: ci sono tutti, o quasi, i motivi e i nodi del nostro secondo Novecento. Ma, appunto, con discrezione, e sfumature tutte particolari, la guerra, anzitutto: da Comisso a Berto, da Bedeschi a Rigoni Stern, dalla prima mondiale all'ultima. Comisso la rivive (Giorni di guerra) come un'avvenutra all'aria aperta e una forma di cameratismo; Berto ne intuisce i risvolti tragici (Il cielo è rosso), ma con una tenerezza adolescenziale di sentimenti solidali tra ragazzi sperduti; Rigoni Stern (Il sergente nella neve) dipinge una Russia di cordiale fratellanza tra fronti e popoli diversi. E, in tutti, il paesaggio si apre confortevole e sensibile, pur nelle diverse angolazioni di stagione ed i condizione di vita. Ed ecco che, allora, Comisso immette in questa tematica la sua bifronte vocazione tra attaccamento alla terra natale e impulso di nomade in giro per il mondo, ricostruendo una sua frastagliata autobiografia di trevigiano contadino e di inviato speciale fino ai confini dell'Oriente più esotico: con punte di sensuale erotismo che si accende soprattutto verso l'acerba gioventù. Dando, cosi, la mano all'eccentrico Buzzati di Un amore (una storia alla Moravia) e all'ultimo Parise di l'Odore di sangue. Ma, salvo per questa Isola sensuale, Buzzati si distingue, invece, per la sua irta propensione al racconto metaforico e al paesaggio simbolico, tra monti spettrali e attese spasmodiche di scommesse impossibili con il destino (Il deserto dei tartari): all'opposto del terragno Comisso. E Parise attraversa fasi diverse, dalle allucinazioni iniziali (Il ragazzo morto e le comete) al simbolismo sociologico de Il padrone, fino al lirismo naturalistico degli eleganti e conclusivi Sillabari. Personalità opposte, che in qualche momento della loro parabola trovano accostamenti imprevisti: «Saggezza e follia, rabbia e rassegnazione, orgoglio e malinconia sono i tratti del nostro carattere che gli scrittori hanno rivestito di colorite metafore».

Un fondo di saggezza e di misura, con strappi di stravagante trasgressione. Piovene innesta il suo introverso e ambiguo moralismo, da Lettere di una novizia ai finali e catastrofici bilanci di Le stelle fredde, in ambienti di torbida borghesia. Mentre Meneghello e Camon sondano i sostrati contadini, l'uno (Libera nos a Malo) con ironica deformazione del linguaggio dilettale, l'altro (Il quinto stato) con secco «a fondo» nell'ancestrale condanna alla miseria. Due modi contrapposti per mettere a fuoco una realtà rurale arretrata, e soffocata dal conformismo sociale e culturale. E Cibotto dà loro la mano nel ritrarre dapprima con bonaria ironia, ne La coda del prete, un piccolo mondo clericale; e poi, con scarna forza documentaria (La rotta) le vicissitudini dello straripamento del Po nel Polesine.

Venezia, in questo contesto articolato e dialettico, si ritaglia il suo angolo appartato, tra luminosità visiva (Diego Valeri prosatore) e indagine critica dei propri mali naturali e strutturali (Paolo Barbaro con il suo vasto ciclo dedicato alla città). Mentre Pasinetti articola i suoi romanzi tra saghe familiari e nobilitari (Rosso veneziano) e cicalecci goldoniani di magistrale orchestrazione (Dorsoduro). Sotto i quali serpeggia, appunto, un cumulo di verità nascoste e indicibili. Sulle quali, invece, snoda le sue storie di ambiente con elegante «savoir-faire» il più mondano Salvalaggio. Quando, addirittura, non c'è chi, come Ongaro o Della Corte, dà fiato a visionarie vicende storiche in visionarie quinte teatrali. Ma, allora: dove finisce la visionarietà di certo Buzzati bellunese e comincia la visionarietà di certi veneziani di seconda generazione? I confini si confondo e mescolano, come si confondevano quelli tra la sensualità di Comisso e di Parise, tra l'ironia grottesca di Meneghello e la drammaticità di Camon. E il Berto della psicanalisi riassunta in chiave autoironica nel Male oscuro dà la mano a Camon, anche lui, episodicamente aperto alla scienza del «profondo io» in La malattia chiamata uomo. E il cicaleccio paravicentino di Neri Pozza è poi molto lontano da quello lagunare di Pasinetti?

C'è poi una più recente generazione di narratori, da Bettin a Bugaro, da Franzoso a Scarpa, da Carlotto a Mozzi, da Marinelli a Trevisan. Inquietante, più spericolata e spregiudicata, come del resto la generazione «ultima» in Italia e nel mondo. De Michelis la vede in stretta connessione con la narrativa extra regionale, «più vicina alle esperienze di tanti altri coetanei sparsi ovunque in Europa». Ma, accanto alla crisi esistenziale, che i «nuovi» condividono con i giovani del mondo, e agli sperimentalismi espressivi che mettono a prova, la Chemotti, con la sua lente di ingrandimento di lettrice specialistica, individua ancora in loro, un «incontro con i luoghi e con i paesaggi della realtà veneta». Come dire, che, pur con l'occhio oltre i confini, anche i nuovi narratori conservano radici nel loro ambiente e nella loro parlata, con quel misto di buon senso quotidiano e di follia evasiva che ha sempre contraddistinto la cultura e la sensibilità veneta: la nostra dolce follia.

Da  un articolo di Giorgio Pullini,  il carattere e la cultura veneta



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